lunedì 30 marzo 2009

Maurogiovanni
gioie e amarezze


«Chidde di lu 188», «Aminue Amare», «Chidd’alde dì» e via dicendo: non finirei più di elencare le opere di Vito Maurogiovanni. Ciao Vito, quanti ricordi, quante discussioni, quanto amore per il teatro, ci ha uniti lo stesso spirito, raccontare la città, attraverso il teatro. Quanto lo amavi il teatro, i piccoli teatri, quelli che ti hanno rappresentato, quelli che hanno lavorato grazie ai tuoi lavori, grazie alle tue visite. Quanti consigli, quanti segreti mi hai raccontato della tua vita, segreti belli, tutti legati al teatro, poi come sapevi raccontarli tu, nessuno.
Avevi la dote di scrivere bene, ed io riuscivo, grazie a te, a vedere i tuoi personaggi, le tue storie, i tuoi aneddoti. Caro Vito ci mancherai, ma non mancheranno a questa città i tuoi testi teatrali, promesso.
Caro Vito, tra i tanti ricordi che mi legano a te, uno in particolare, un Venerdì Santo del 1993, assistemmo insieme alla processione dei Misteri, mi hai insegnato ad amarla, a capirla, mi dicesti: «Vedi… impara… è come un Corteo Storico». Io risposi: «Vito è difficile che riesca mai a farlo un Corteo Storico». Lui profetico: «Vedrai, vedrai…».
Nel 1994 organizzai per la prima volta il Corteo Storico di San Nicola. Profetico Vito Maurogiovanni. Nel monologo di un testo teatrale scritto negli anni ’70, «Sanghe amore e contrabbanne», dedicato al teatro Petruzzelli, scriveva: «Sono belli i colori della scena in un teatro, il rosso sembra fuoco, e sembra voglia bruciare cose e persone».
Profetico Vito Maurogiovanni, anni fa mi confidò di aver spedito al Piccolo Teatro di Milano un testo teatrale dal titolo «Giallo al convento». Questo testo finì in mano ad un «certo» Umberto Eco. Quanche anno dopo lo stesso Umberto Eco pubblicò «Il nome della rosa». Ti sentisti tradito caro Vito, ti capisco e continuerò a capire sempre la tua anima di autore, di artista, di uomo.
Quante gioie, ma quante amarezze, quando non riuscivo ad ottenere con i tuoi testi un riconoscimento per un teatro che a detta dei «grandi esperti» è di serie B. Il dialetto, non è stato mai inserito nei calendari teatrali di enti preposti alla distribuzione e circuitazione di spettacolo teatrali, proprio perché definito di serie B. Oggi tutti ti ricordano (anche qualche ipocrita) parla bene di te… oggi. Perché non ieri? Perché?
Quanti artisti mi hanno preso in giro quando decidevo di mettere in scena i tuoi lavori. Mi sentivo ripetere: «Chi te lo fa fare, è pesante il teatro di Maurogiovanni» oppure sentirmi dire: «Ma vive ancora Maurogiovanni?».
Ebbene sì, cari colleghi, il Teatro di Vito Maurogiovanni vive e vivrà sempre, come lui in mezzo a noi, per sempre. Seduto lo ricordo tra le fila di «piccoli teatrini»così come definiti da molti, ma che grazie anche alle tue opere diventavano «grandi». Tu dicevi sempre: «Noi pensiamo in dialetto e parliamo in italiano. È questo il nostro segreto».
Ricordo ancora il tuo venire a teatro per assistere alle tue opere con grande gioia e ricordo quando mi confidavi che la notte non dormivi pensando al tuo mondo fatto di attrici, attori, scene, costumi, musiche e storie antiche di uomini, di donne e di amori…

Gianni Colajemma
Attore, regista «barese»
Direttore artistico del Teatro Barium
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Lettera a “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 30 marzo 2009

mercoledì 25 marzo 2009

Cristo si è fermato a Eboli per non fare la Salerno-Rc
di Giuseppe De Tomaso

Sapete perché Cristo si è fermato a Eboli? Per non fare la Salerno-Reggio Calabria. La battuta può sembrare irriverente e blasfema. Ma sorge spontanea dopo aver patito una coda di tre ore a causa dei lavori iniziati dopo la caduta di una frana all’altezza di Pizzo Calabro. Già in condizioni normali raggiungere il capoluogo calabrese non è agevole. Figurarsi in situazioni d’emergenza. L’alternativa Jonica, poi, è una sorta di gimkana tra paesi e paeselli intervallati da strade affollate di semafori e di multifici: superare i 50 chilometri l’ora è un azzardo per il portafogli, visto che gli autovelox sono più numerosi degli aranceti. Morale: approdare a Reggio partendo da Bari, percorrendo la Jonica e schivando le insidie dei controlli di velocità richiede un arco di tempo di circa otto ore. Si fa prima a raggiungere New York. Dovrebbe andare meglio, almeno in teoria, optando per la Tirrenica, che corrisponde alla Salerno-Rc. Ma se la Salerno-Reggio è un’autostrada, allora Carla Bruni è una befana: una palese bugia. Cantieri infiniti, carreggiata stretta, corsie d’emergenza a rate: sulla Sa-Rc non ci si fa mancare nulla per rendere il viaggio degli automobilisti verso Reggio più faticoso di un calvario. Tanto che gli automobilisti non sanno che imbocco prendere fra la strada Jonica e l’autostrada Tirrenica: in ogni caso la fregatura è assicurata. Domanda: quale sviluppo può partire in una regione, i cui collegamenti non sono migliorati molto rispetto ai trasporti-choc denunciati nell’inchiesta del 1877 condotta da due politici giornalisti come Sidney Sonnino (1847-1922) e Leopoldo Franchetti (1847-1917)? Certo, ora c’è qualche strada in più, ma, in termini reali, il dislivello infrastrutturale tra la regione più povera dello Stivale e il resto del Paese, probabilmente è aumentato. Per non parlare del gap nei redditi, che non tende a ridursi nonostante la Cassa per il Mezzogiorno e tutti gli altri interventi straordinari, che di straordinario avevano ben poco visto che a malapena assicuravano l’ordinario. Rispetto alla Calabria, la Basilicata e la Puglia fanno la figura della Lombardia. Anche sul piano urbanistico e architettonico, Puglia e Calabria rappresentano due Sud diversi. L’edilizia pugliese non è un inno ai maestri della pietra e delle costruzioni, ma non è nemmeno quello strazio estetico-urbanistico che mortifica le coste e l’entroterra calabresi. Altro che 20-30 metri in più di cubatura, come prevede il piano Berlusconi per riaccendere il mercato delle abitazioni. In Calabria bisognerebbe abbattere il 70-80 per cento degli edifìci, bisognerebbe progettare e realizzare palazzi ex-novo. Solo così si potrebbe consegnare la regione dei Bronzi di Riace all’unico turismo che porta soldi e sviluppo: quello culturale, di rango e d’élite. Ma questo, sbotterebbe il generale Charles De Gaulle (1890-1970), è un programma vasto e ambizioso. Il bello, cioè il brutto, è che nessuno investe denari in Calabria, a parte gli sportelli pubblici di Roma e del posto. Non investono quattrini neanche i calabresi che hanno fatto fortuna e miliardi al Nord, come i Versace. Neppure i clan della ‘ndrangheta dirottano i loro strepitosi guadagni nella terra d’origine: e pensare che nella storia del capitalismo non è trascurabile la fetta di accumulazione che dopo l’esordio nell’illegalità criminosa ad un certo punto decide di compiere il grande passo verso la legittimazione sociale e la legalità. Chi erano i grandi del capitalismo Usa, i Vanderbilt o i Rockfeller, se non dei signori senza scrupoli le cui origini «imprenditoriali» farebbero arrossire anche le facce più scafate?In Calabria, invece, non si muove nulla, o si muove pochissimo. E pensare che questa regione richiamerebbe più visitatori della Spagna, visto che - come ricorda Marcello Veneziani nel suo ultimo libro Sud, edito da Mondadori -, al Nord si va per necessità, mentre nei meridioni del mondo si va per scelta, perché i Sud sono più belli, perché sono baciati dal sole e magnificati dalla luce. Al naturale la Calabria è irresistibile: una perla di mare e monti. Un incanto. Ma anche alla terra di Corrado Alvaro (1895-1956) si addice la struggente definizione appioppata da Benedetto Croce (1866-1952) alla sua splendida e disperata Napoli: «Un paradiso abitato da diavoli». La Calabria: un paradiso affollato di persone - da una certa classe politica collusa ad una società civile spesso tendente all’incivile - refrattarie alla cultura della legalità, che, si sa, sta allo sviluppo economico come la benzina sta all’automobile. Infatti senza il carburante della legalità nessun territorio può partire. Ma torniamo a bomba. Il Ponte di Messina va bene. Ma sullo Stretto bisogna pur sempre arrivarci. Forse sarebbero altrettanto urgenti altre opere, a cominciare dall’autostrada Taranto-Reggio, abortita alla «barriera» di Palagiano. Così come la Salerno-Reggio andrebbe ammodernata e, prima di tutto, sottratta alla lottizzazione delle cosche. Reggio Calabria sta cambiando, ha un sindaco dinamico e la Reggina gioca pure in serie A. Ma è troppo poco per assolvere la regione fanalino di coda (!) d’Europa. Né può tacitare le coscienze più inquiete l’inserimento del capoluogo reggino tra le 10 prossime città metropolitane. I poltronifìci non hanno mai generato ricchezza.
giuseppe.detomaso@gazzettamezzogiorno.it
25/3/2009

C’è acqua per tutti ma non è di tutti
di Gino Dato

Quanti chilometri di acquedotto o di fognatura sarebbe stato possibile costruire con le diecine di milioni di euro che sono stati spesi per organizzare a Istanbul il 5° Forum mondiale dell’acqua, per trasportare nella bella città turca migliaia di ministri, autorità, giornalisti, manager industriali, portaborse e anche ambientalisti attratti dal grande evento, e per ascoltare, ancora una volta, le stesse cose che da decine di anni si leggono dovunque ? Che cioè ci sono alcuni miliardi di persone nel mondo, donne, uomini, bambini, vecchi, che mancano di acqua potabile, di servizi igienici, di gabinetti e fognature, mentre, come al solito, alcuni miliardi di persone sprecano l’acqua e migliaia di chilometri di acquedotti perdono la preziosa acqua ? I conti sono stati fatti molte volte: l’acqua nel mondo è abbondante grazie all’energia solare, sempre quella, che tiene in moto tutto sulla Terra. L’acqua che «serve» a fini umani, per le abitazioni, per irrigare i campi, per le fabbriche, deve avere un basso contenuto di sali; l’acqua «dolce» delle piogge e della neve che cade e scorre sulle terre emerse, ammonta a circa 40.000 miliardi di metri cubi all’anno mentre l’acqua richiesta dalle attività umane ammonta ad alcuni miliardi di metri cubi all’anno: il resto scorre nelle valli e nei fiumi e ritorna al mare.Non può non essere pubblica - Ci sarebbe quindi acqua per tutti se la distribuzione delle piogge non fosse molto diversa nei vari continenti e non fosse anche soggetta a mutamenti nel corso dell’anno. In molte zone dei vari continenti - Africa centrale, Sud-est asiatico, America meridionale - ci sono grandissime risorse di acqua dolce nei fiumi e nei laghi e poca popolazione che peraltro in genere non ha acquedotti o servizi igienici per trarre beneficio da questa ricchezza. Ci sono molte zone dei vari continenti - in genere quelle dei Paesi «industrializzati» - in cui è molto grande la popolazione accentrata in città sempre più numerose e grandi, in cui sono intense le attività agricole e industriali, è alta la richiesta di acqua dolce e la disponibilità di acqua nei fiumi e nei laghi è limitata. La soluzione delle crisi dell’acqua va cercata in una giustizia distributiva e qui ci si scontra col primo grave ostacolo, quello della «proprietà» dell’acqua, al centro di tutti i dibattiti sotto due aspetti. Di chi è l’acqua di un fiume come il Po, o il Danubio, o il Rio delle Amazzoni, o anche di un più modesto fiume come l’Ofanto o il Fortore, che scorre fra diverse regioni e paesi ? Il titolo della conferenza di Istanbul era proprio: «Stendere dei ponti» fra rive e popoli che si affacciano sullo stesso fiume. Non a caso la Turchia, che ospitava il Forum mondiale, ha conflitti con la Siria e l’Iraq per la «proprietà» delle acque del bacino idrografico del Tigri-Eufrate, il «grande fiume» biblico che si estende nei tre Paesi confinanti. Chi preleva acqua da un fiume per le proprie legittime necessità priva di parte dell’acqua coloro che vivono a valle. Chi scarica sostanze inquinanti in un fiume rende inutilizzabili le acque dello stesso fiume per le popolazioni a valle. La soluzione va cercata nel riconoscere che la vera unità politico-economica in cui si dovrebbe regolare la distribuzione e l’uso delle acque è il bacino idrografico, quel territorio composto da ogni valle con i fiumi principali e i loro affluenti, in cui scorre l’acqua delle piogge e delle nevi dall’alto fino al mare. La distribuzione e l’uso delle acque dovrebbero essere pianificati, decisi e fatti dalle popolazioni che abitano ciascun bacino. Sfortunatamente per ragioni anche storiche, ciascun bacino idrografico è diviso fra vari Stati e regioni amministrative ciascuno dei quali si considera «padrone» dell’acqua del suo pezzo di bacino idrografico. Lo Stato o la regione a monte di un bacino idrografico non ha nessun obbligo di avvertire chi sta a valle che costruirà una diga, che preleverà tanta acqua, che scaricherà tanti rifiuti nel bacino. Spesso i Paesi che si spartiscono uno stesso bacino idrografico sono in conflitto. Il «popolo dell’Ofanto» - La soluzione potrebbe essere cercata in una educazione a considerare l’acqua come bene comune delle popolazioni che abitano lo stesso bacino. Dovrebbe esistere non il popolo della Basilicata o della Puglia, ma il «popolo dell’Ofanto», o altrove il «popolo del Danubio», o il «popolo del Giordano» eccetera. In via di principio dovrebbe essere lo Stato che si assume il compito di assicurare acqua a tutti facendo pagare un prezzo equo e uguale. L’«acqua di Stato» come servizio pubblico dovuto ai cittadini. Di fatto gli Stati con riescono (o non riescono più) a svolgere questa essenziale funzione e dovere e si affidano a imprese il cui fine non è quello di soddisfare dei diritti civili e umani, ma di guadagnare, di coprire con le tariffe i costi affrontati e ricavarne profitto. E dove non c’è «mercato» per guadagnare non c’è neanche interesse ad assicurare l’acqua alle persone da cui non si può ricavare nessun utile. Nelle scorse settimane le riviste e i mezzi di comunicazione ci hanno mostrato i bambini con pesanti carriole piene di bottiglioni di acqua o donne con recipienti di acqua sulla testa che vagano da un fiume alle case o alle baracche. Chi volete mai che investa soldi per alleviare la fatica di queste persone quando ciò non assicura profitti ? Quando addirittura l’acqua «di tutti» è concessa dagli enti statali o regionali a pochi centesimi di euro al metro cubo ai privati che la imbottigliano e la vendono a diecine di euro al metro cubo ?
"La Gazzetta del Mezzogiorno" - 25/3/2009