lunedì 31 dicembre 2018

Cara insostituibile Gazzetta
quante cose mi hai insegnato


Cara Gazzetta, leggo con apprensione del tuo grave stato di salute, causato non dalla longevità (130 anni non sono comunque pochi!) ma da un batterio che da sempre, ovunque si insinui, provoca danni quasi irreparabili. Ma con te non può andare in questo modo. Qualcuno dovrà fare il miracolo di tenerti in vita per continuare nella missione – indispensabile per la democrazia – di raccontarci senza fronzoli gli accadimenti di tutti i giorni, in Puglia e in  Basilicata, in Italia e nel mondo.
Dispiace saperti in uno stato che potrebbe rivelarsi fatale per la tua sopravvivenza, e questo non per colpa dei giornalisti che di te hanno fatto un importante pezzo della nostra storia, né per ipotetici bilanci schizofrenici, né tantomeno per la disaffezione dei tuoi lettori. Se sei in pericolo di vita è perché il tuo editore è accusato d’aver fatto affari con la mafia, per cui la Procura di  Catania ha disposto il sequestro/confisca di tutti i suoi beni, tra i quali figuri anche tu, cara Gazzetta. Ma, come sappiamo tutti, tu non hai nessuna responsabilità. Certo, la legge è legge. Ma, ci sarà pure una qualche altra via altrettanto rispettosa della legge che possa consentire la sopravvivenza di un organo d’informazione senza macchia e senza paura che ha accompagnato e fatto crescere diverse generazioni di pugliesi e di lucani. O no?
Io, cara Gazzetta, ti ho conosciuto quand’ero ancora un ragazzo, quando mio zio Ubaldo Barone era il tuo corrispondente da Lecce, e da subito sei stata il primo amore della mia giovinezza, sei stata tu a farmi venire la voglia di tuffarmi, anima e corpo, nel meraviglioso mondo dell’informazione. Tu, complice della mia scelta e speranza nel mio futuro. Mi hai insegnato moltissime cose, mi hai fatto capire soprattutto quanto delicato sia l’uso della parola rivolta a migliaia di persone che la leggono. E quando decidesti di assumermi, mi ponesti alle straordinarie “cure“ di quel grande maestro di giornalismo ch’è stato Domenico Faivre, indimenticabile capo della tua redazione leccese.
No, tu non puoi morire. Né oggi né mai! Per questo dobbiamo impegnarci tutti a trovare il giusto antidoto ad un male che non ti appartiene e che, anzi, hai sempre cercato di contrastare con tutte le tue forze. I dottori? Gli specialisti? Vanno cercati nelle istituzioni, nella politica, nell’imprenditoria. Dovranno concorrere tutti, ognuno nel proprio campo, a salvarti da un infausto destino. E anche la Legge – con la L maiuscola – dovrà aiutarti affinché tu possa rimetterti in sesto al più presto. I pugliesi e i lucani non possono diventare tuoi orfani. Tu sei parte integrante della nostra storia.
Tu credi ai miracoli? Io sì, cara Gazzetta. Vedrai che tutto si sistemerà, togliendo così dall’angoscia anche i tanti colleghi giornalisti, i poligrafici e gli amministrativi che non sanno più a che santo rivolgersi. Perciò, auguri a te, a loro e anche a noi che non ti vogliamo perdere.

Nicola Apollonio
Lettera al Direttore - Gazzetta del Mezzogiorno del 31-12-2018

mercoledì 6 settembre 2017

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450 anni di storia
 
di Vito Antonio Melchiorre


domenica 14 febbraio 2016


Per Araldo di Crollalanza
un anniversario sotto silenzio

Se non fosse stato per il necrologio, a pagamento, pubblicato sulla «Gazzetta» del 18 gennaio scorso, il trentesimo anniversario della scomparsa del senatore Araldo di Crollalanza, sarebbe passato del tutto inosservato e sepolto nel più colpevole oblio generale. La ricorrenza avrebbe dovuto avere, invece, una maggiore attenzione da parte dei media locali, per i grandissimi meriti che vanno ascritti alla sua persona per quanto Egli ha fatto per Bari e la Puglia intera. Per tutti coloro che hanno dimenticato che non conoscono le vicende personali del barese Araldo di Crollanza va ricorda che fu, durante il ventennio fascista, deputato al Parlamento, podestà di Bari, sottosegretario di Stato e poi ministro nel dicastero dei lavori pubblici. In tali vesti si adoperò attivamente contribuendo insieme ad altri validi personaggi locali allo sviluppo e trasformazione epocale della città di Bari. Infatti furono realizzate sotto la sua spinta istituzioni ed opere pubbliche quali l’università degli Studi, la Fiera del Levante, il Porto Nuovo, il Lungomare, dall’ingresso monumentale della FdL fino all’imponente edificio della caserma «Bergia» dei Carabinieri e gli altri palazzi pubblici che lo impreziosiscono, lo Stadio della Vittoria, il Policlinico, nonché i canaloni Lamasinata e Valenzano ed altro. Dopo la guerra fu sottoposto a processo per essere epurato dalla vita pubblica avendo ricoperto cariche pubbliche durante il ventennio fascista ma fu totalmente scagionato da ogni imputazione ed assolto per la cristallina onestà e concretezza dimostrate durante l’esercizio delle sue funzioni. Ritornò alla vita pubblica e fu consigliere comunale di Bari dal 1956 al 1976. I baresi tutti compresi anche quelli di altro coloro politico, lo hanno sempre votato quale senatore della Repubblica, carica mantenuta sino alla sua morte e ciò in segno di eterna gratitudine per quanto operato a vantaggio della città di Bari.
Ciò per non dimenticare.

Gazzetta del Mezzogiorno del 28-01-2016
Lettera di Vincenzo De Giosa - Valenzano (Bari)

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martedì 27 settembre 2011

IL LOCALE NON È CAMBIATO - Stessi spazi, stessi inconfondibili profumi perla nuova brioche nata nel solco della tradizione della Fiera del Levante

QUEL PROFUMO-GUIDA - Fino a un anno fa c'era un odore inconfondibile, un profumo che guidava grandi e piccini nei pressi degli uffici del Centro Direzionale

Niente merendine «Aida»,
dopo 60 anni muore un rito

Il tradizionale dolce barese in Fiera non c'è più.
Al suo posto un altro prodotto.


Chiuso pure il bar - Da alcuni mesi chiusa anche la sede dell'Aida di via Piccinni

C’era fino all’anno scorso in Fiera un odore inconfondibile, un profumo, una fragranza che guidava grandi e piccini nei pressi degli uffici del centro direzionale. Era l’odore-guida delle merendine Aida. Una tradizione, un marchio nato nel 1944, 67 anni fa, giusto qualcuno in meno della Fiera del Levante. Un irresistibile aroma che ha saputo catturare svariate generazioni di baresi e non. L’appuntamento era inevitabile, si consumavano in loco e si faceva la scorta delle confezioni da portare a casa (rigorosamente da tre pezzi) di quelle brioches gustose, con la glassa di zucchero sopra. Gli anni passano, la Fiera cambia e anche le merendine si aggiornano. E, sorpresa delle sorprese, le merendine Aida quest’anno non ci sono più. O meglio le merendine ci sono, nello stesso posto, con gli stessi macchinari degli ultimi anni, con identici aromi. Quello che è sparito è il marchio Aida. Un marchio sparito anche dal bar in via Piccini, chiuso da qualche mese. Insomma le brioches ci sono, ma hanno cambiato nome adesso si chiamano più semplicemente, o prosaicamente, «La merendina».


«Quando l’ente fiera mi ha contattato, mi ha proposto di utilizzare il “padiglione delle merendine” perché era rimasto vuoto», spiega Giuseppe Abbinante, titolare della società e imprenditore noto nel settore dolciario, nel rivelare la genesi del nuovo marchio. «“Il padiglione delle merendine” mi ha fatto nascere l’idea - continua - Mi sono detto: devo fare un prodotto nuovo, ma legato alla tradizione della Fiera del Levante della quale siamo eredi. Così è nata la merendina per l’edizione della fiera 2011 che al tempo stesso ha dato il nome all’attività che ovviamente si svolge in loco, all’interno della campionaria».

«Soffice», «Gustosa», «Saporita», riportano i manifesti pubblicitari che addobbano i locali del bar e del laboratorio, con l’intento di esaltare le qualità organolettiche (da percepire appunto coi cinque sensi) della merendina oggetto di culto dei baresi al tempo della fiera. «Anziché affidarci a marketing, packaging e pubblicità - afferma il titolare - abbiamo scelto le espressioni naturali dei nostri bambini quando l’hanno assaggiata». Il segreto della fragranza della merendina sta nell’utilizzo del cosiddetto lievito madre, un elemento così particolare tale da rendere la ricetta della brioche condita di zucchero o cioccolato altrettanto misteriosa quanto la formula della Coca Cola. Un segreto industriale di cui Abbinante va fiero.

Con tutto il rispetto per il prodotto dell’imprenditore che si è lanciato in questa avventura, manca però il fascino della tradizione, di un nome così fuori dal tempo e evocativo come Aida, che richiama all’opera di Verdi, a un tempo andato ma proprio per questo fantastico e ricco di sapori indimenticati. Un po’ come il panzerotto fritto a Santo Spirito da “Qui si gode”, che deliziava i visitatori di provincia di ritorno dalla Fiera del Levante. Pare che sotto ci siano anche questioni legali di utilizzo del marchio. E allora, con buona pace dei ricordi di grandi e piccoli, l’Aida non c’è più, viva l’Aida.
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Manlio Triggiani - "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 13-09-2011

mercoledì 5 maggio 2010

La Laterza ripubblica il volume di "peucezio" edito negli anni cinquanta, quasi un "classico"

Non fece acqua il '900 di Puglia
La storia dell'Acquedotto pugliese scritta da Michele Viterbo

L’identità più alta e significativa della storia pugliese del Novecento è scandita dalle vicende dell’Acquedotto, una delle realizzazioni tecnico- ingegneristiche più rilevanti della realtà non solo nazionale, ma europea. Una compiuta ricostruzione delle complessa storia di quest’opera pubblica - che, dai decenni post-unitari, sollevò un vasto dibattito politico nel Parlamento, nelle amministrazioni locali e nel Paese - fu attuata nel 1954 dallo storico Michele Viterbo (Peucetio), La Puglia e il suo Acquedotto. Ed ora viene opportunamente ripresentata dall’editore Laterza. Viterbo, studioso originario di Castellana, dopo le drammatiche vicende del secondo conflitto mondiale, colse l’occasione per esaminare le scelte della classe dirigente nell’età giolittiana e negli anni del regime, il ruolo dell’intellettualità tecnica, le scelte imprenditoriali nazionali e locali ed in particolare la funzione del meridionalismo democratico che a gran voce sin dagli ultimi anni dell’800 sollevò la questione delle infrastrutture necessarie per la modernizzazione del Sud. Nel tracciare le modalità della realizzazione del Canale principale - che dal versante Tirrenico degli Appennini (sorgenti del Sele in Campania) per azione meccanica trasportò l’acqua sul versante Adriatico per circa duecentocinquanta chilometri sino a Villa Castelli (Brindisi) - Viterbo mise in luce tutti i complessi aspetti geologici, tecnici, sociali e produttivi dei territori attraversati dall’Acquedotto. Egli si soffermò sulle condizioni di vita delle popolazioni che riponevano le loro speranze nell’arrivo dell’acqua per risolvere tra gli altri malattie endemiche, come colera e tifo, e più in generale per il miglioramento delle condizioni di vita. L’autore offrì, in una chiara visione d’insieme ed in una efficace narrazione la complessa vicenda, non dimentico della sua iniziale formazione radicale e repubblicana e la condivisione della battaglia di Gaetano Salvemini che nel Consiglio provinciale di Bari e nei numerosi interventi parlamentari denunciò i ritardi nella costruzione di un’opera pubblica, tanto attesa dalle popolazioni; e svelò gli intrecci affaristico-clientelari della grande industria del Nord (la società Ansaldo di Genova e la ditta Bombrini) appaltatrice dei lavori ed il ceto politico nazionale e locale. La realizzazione dell’Acquedotto rappresentò un evento che coinvolse gli interessi dell’intera regione e ne mise in luce alcune figure della vita politico-culturale, tra le quali spiccavano l’economista salentino Antonio De Viti De Marco, l’imprenditore dauno Giuseppe Pavoncelli (presidente del Consorzio), il giurista Alfredo Codacci Pisanelli, deputato di Tricase, e Antonio De Tullio, presidente della Camera di Commercio di Bari. Costoro, agli inizi del Novecento, furono in prima linea nel respingere interventi assistenziali da parte dello Stato centrale e nel chiedere opere infrastrutturali, ferrovie, acquedotto, strade, per la modernizzazione produttiva dell’agricoltura meridionale e per risolvere il divario tra Nord e Sud. Viterbo si avvalse di importanti fonti documentarie reperite nei diversi archivi e biblioteche regionali e nazionali per tracciare anche la storia dell’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese (EAAP), costituitosi nel 1919 con il compito di provvedere all’alimentazione idrica dei centri abitati, assumendo nuove funzioni: dalla costruzione del sistema fognario alle opere di irrigazione, alla pavimentazione stradale dei comuni. Si trattava di un ambito estremamente vasto di competenze, che richiedevano una capacità di pianificazione degli interventi sul territorio regionale, urbano e rurale ed una capacità di sviluppo di una elevata attività tecnico-scientifica attenta anche alla salvaguardia del territorio e dell’ambiente. La nascita della stazione agraria sperimentale di Foggia per lo studio dei sistemi di coltivazione e di irrigazione, e l’istituzione nella regione di diversi laboratori per le indagini chimiche e batteriologiche rappresentarono alcune delle innovazioni d’avanguardia connesse all’intervento dell’EAPP. Il volume di Michele Viterbo, apparso nei primi anni Cinquanta, ebbe tra l’altro la funzione di recuperare la memoria storica regionale, dopo il varo della Cassa del Mezzogiorno ed alla vigilia di nuove e importanti realizzazioni (dighe e grandi invasi) che avrebbero affrontato definitivamente le questioni dell’approvvigionamento idrico e dell’irrigazione coinvolgendo anche le regioni limitrofe, Lucania, Campania e Molise. Nella storia dell’Acquedotto - arricchita alcuni anni fa da nuovi studi, come quelli di Luigi Masella - si riflette l’intera storia della Puglia nel Novecento.Michele Viterbo, scomparso nel 1973, fu anche promotore degli studi risorgimentali, soprattutto in Puglia. Le sue opere, nonostante il tempo trascorso, appaiono ancor oggi attuali e ci ricordano - di fronte a proposte di privatizzazione affrettate e calate dall’alto - che l’Acquedotto ha rappresentato e rappresenta non solo un grande patrimonio di tutti, ma, al contempo, un programma complesso per vincere non solo «l’arsura e la sete», ma «per irrigare le terre, per le industrie da far nascere, cioè per creare nuove fonti di ricchezza e di lavoro» ed infine per la difesa della salute e dell’ambiente.
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VITO ANTONIO LEUZZI - "La Gazzetta del mezzogiorno" del 05 maggio 2010

sabato 10 ottobre 2009

La fortuna del ferroviere

------Era all'alba che il caffé "notte e giorno" di via De Rossi si riempiva di clienti. Entravano infreddoliti, nel mese umido di novembre già presago del freddo dicembre vicino: erano ferrovieri, marinai, artigiani, operaie della ditta Larocca, pomodori, baccalà, pesche sciroppate. Avevano ancora sul viso il sapore del sonno, l'odore delle case dalle quali venivano e quell'aria incantata del primo mattino.
------Il caffé odorava di rosolio, di rum, di "sussurri", tazze di caffé lunghi tonificati dai liquori d'arance, limoni, mandarini. I ferrovieri portavano i loro berretti ben calati sulla testa, i loro cappotti incerati nei quali sembravano sepolti per vincere il freddo delle strade, delle stazioni, dei treni.. Erano gran narratori dei loro viaggi, delle loro locomotive, della pesantezza del lavoro. Il fuochista si lamentava di mettere per ore e ore, palate e palate di carbone nella bocca del focolare per avere sempre sotto pressione la caldaia a vapore. Quando non andava in ferrovia, vestiva lindo e pulito ma a guardarlo bene c'erano sul viso ancora segni neri, l tracce di carbone che il sapone marsigliese, pur usato in abbondanza, non riusciva a detergere. Sognava di poter guidare lui il locomotore, si era stancato di mettere sempre carbone, al massimo il macchinista gli gaceva tirare la corda del lungo sibilante fischio del treno. Aveva gran rispetto però per il suo capo, un gran pezzo d'uomo, un gigante, quasi come la possente locomotiva, affidata alle sue forti mani.
------Raccontava che era felice, quando, sul cavalcavia di Corso Cavour, vedeva aspettarlo tanti bambini ammalati di pertosse. Era convinzione allora che quel malanno si curava con il fumo del treno. E gli ammalati, e i loro familiari, asndavano ad appostarsi dove passavano i ten. Con il freddo intenso o il caldo sole, con la pioggia fitta o la neve lenta, quei ragazzini s'appollaiavano sui ponti, sui cavalcavia, nei luoghi dove il vapore dei lunghi convogli li avvolgeva nel suo candido sprigionarsi.Il macchinista, alla loro visita, ce la metteva tutta, per rallentare la velocità del treno e scaricare quanto più vapore poteva: per fasciare, nel salutare toccasana, i ragazzi annidati su quei passaggi obbligati. Erano tutti avvolti in scialli e sciarpe e mantelli, i genitori e i nonni accanto; e il macchinista a svuotare tutto il vapore possibile per aggomitolarli in quella nebbia acquosa e salvifica. Poi quando il treno riprendeva la velocità, dal ponte ragazzi e familiari con sciarpe e cappotti, braccia levate in alto, salutavano il ferroviere che aveva dato loro tanto fumo. ------Il fuochista, quello sempre sporco di carbone, diceva di sì, il suo capo era bravo e buono, ma aveva anche un culo grosso così. La gente del caffé storceva un po' la bocca a sentire quelle parole sboccate; ma quasi tutti erano coinvolti in quelle pettegole chiacchiere di primo mattino, la giornata forse doveva essere pesante, e un po' di pettegolezzo non faceva certo male. La fortuna del suo macchinista era quella di far arrivare i treni sempre in orario. Dieci minuti di ritardo? Mai sia, signore. E nemmeno un minuto, manco un secondo: il suo treno, all'ora stabilita, era immancabilmente in stazione. No, non era fortuna, non era nemmeno l'organizzazione ferroviaria del tempo che faceva arrivare il convoglio in orario. Lui aveva inventato un marchingegno, un aggeggio che aveva costruito se stesso. I ferrovieri, diceva, sono bravi, bravissimi, ma lui era superbravo. "Noi prima di entrare in ferrovia - diceva - dobbiamo fare il "capolavoro", la prova cioè che deve dimostrare l'abilità e la prontezza dell'aspirante". Quando quel macchinista affrontò la prova, fece un cosa, ma una cosa, una cosa così grande che... Tutti allora domandavano che cosa avesse fatto. Il fuochista rimaneva un po' perplesso, poi esclamava: "Buh!". E un'irrefrenabile risata scoppiava nel caffé pieno di gente.
------Il fuochista continuava però ad affermare che, proprio per il suo geniaccio, il suo capo aveva inventato chissà quale diavoleria: la inseriva al momento opportuno e la locomotiva acquistava quella velocità necessaria a farle superarwe i ritard. Era in gamba, quel macchinista-inventore. Una volta lui aveva messo sossopra la locomotiva, ma non aveva scoperto cosa era quell'invenzione che faceva arrivare il treno sempre in orario.E concludeva: "Era anche questione di...", e ripeteva la parola che scandalizzava i mattinieri frequentatori del caffé "notte e giorno".
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Vito Maurogiovanni - "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 13 novembre 2006

venerdì 31 luglio 2009

 
Così muore un teatro
Dov’era l’Abeliano ritorna un capannone
Le signore della pulizia spazzano in silenzio, alcuni operai portano via gli ultimi arredi del teatro Abeliano. Quella che era la sede adesso è irriconoscibile. Resta una sorta di scheletro, fatto di muri, nere capriate, un buco dal diametro di alcuni metri nel centro del palcoscenico.
Insomma, il teatro Abeliano, dopo 32 anni, non c’è più nella sua sede storica. E stamattina, alle 10,30, davanti all’ingresso, il presidente del teatro Abeliano, Vito Signorile, consegnerà le chiavi ai proprietari. Contestualmente, saranno restituite alla cooperativa Gruppo Abeliano le diciotto mensilità anticipate più una quota relativa alle migliorie che sono state apportate ai locali di quello che un tempo era un capannone, un deposito di frutta. Il tutto per un totale di 70mila euro.
Vito Signorile, raggiunto in provincia di Brindisi, a Mesagne, dove sta girando un film con Sergio Rubini, spiega: «Abbiamo portato via l’attrezzatura teatrale, abbiamo smontato i pannelli resistenti al fuoco – spiega Signorile – le porte tagliafuoco, le strumentazioni della cabina di regia e tutto il palcoscenico».
Sfratto per finita locazione: questa la motivazione. Già due anni fa fu notificato lo sfratto e dal magistrato il teatro Abeliano ottenne una proroga per restare, in quella sede, per un altro anno. «Speravamo in una ulteriore proroga - dice Vito Signorile – ma non c’è stato nulla da fare. Abbiamo vissuto momenti molto difficili e, per fortuna, il sindaco, la Provincia e altri teatri ci hanno dimostrato solidarietà»
Al teatro Piccinni, infatti, sarà ospitata una parte importante della stagione, la «Actor» e altre rappresentazioni si terranno nel nuovo teatro Forma, in quello dell’anonima GR e nell’auditorium del polivalente di Japigia. Insomma, tutta la programmazione è salva. Ma già si dovrebbe pensare al dopo, fra un anno. «Partirà, come le istituzioni hanno annunciato – spiega Signorile – una sottoscrizione volontaria, che potrebbe mettere insieme pubblico e privato, per realizzare un nuovo teatro. Abbiamo chiesti di individuare un suolo pubblico per la nuova sede – dice Signorile -, possibilmente a Poggiofranco. Sa, la gran parte dei nostri mille abbonati vive fra Carrassi e Poggiofranco e trovare una sede da quelle parti è per noi importante e strategico. Domani (oggi, per chi legge, ndr) restituiamo le chiavi al proprietario: la scadenza prevista era per il 31 luglio, con una penale prevista per ogni giorno di ritardo di ben 1.500 euro. Anticipiamo di un giorno e chiudiamo questa situazione che non è certo piacevole».
I vari pannelli ignifughi, i sipari e le poltrone autoestinguenti, saranno in gran parte adattati al nuovo teatro. La speranza è che gli enti locali diano una mano, che l’eventuale raccolta di fondi si faccia presto e vada a buon fine. Altrimenti un buon esperimento culturale rischia davvero di morire.
Resta da vedere quale sarà il futuro della ormai ex sede del teatro. La destinazione urbanistica prevedeva l’abbattimento di quel capannone per realizzare un’area a verde. Ma 32 anni fa fu sottoscritto un atto di sottomissione con il Comune, tuttora valido, che prevedeva la trasformazione del capannone in teatro. Qualora l’ente locale avesse deciso di realizzare il verde, avrebbe potuto far abbattere il teatro senza che proprietari né gestore potessero opporsi.

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Manlio Triggiani - "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 30 luglio 2009