mercoledì 25 marzo 2009

C’è acqua per tutti ma non è di tutti
di Gino Dato

Quanti chilometri di acquedotto o di fognatura sarebbe stato possibile costruire con le diecine di milioni di euro che sono stati spesi per organizzare a Istanbul il 5° Forum mondiale dell’acqua, per trasportare nella bella città turca migliaia di ministri, autorità, giornalisti, manager industriali, portaborse e anche ambientalisti attratti dal grande evento, e per ascoltare, ancora una volta, le stesse cose che da decine di anni si leggono dovunque ? Che cioè ci sono alcuni miliardi di persone nel mondo, donne, uomini, bambini, vecchi, che mancano di acqua potabile, di servizi igienici, di gabinetti e fognature, mentre, come al solito, alcuni miliardi di persone sprecano l’acqua e migliaia di chilometri di acquedotti perdono la preziosa acqua ? I conti sono stati fatti molte volte: l’acqua nel mondo è abbondante grazie all’energia solare, sempre quella, che tiene in moto tutto sulla Terra. L’acqua che «serve» a fini umani, per le abitazioni, per irrigare i campi, per le fabbriche, deve avere un basso contenuto di sali; l’acqua «dolce» delle piogge e della neve che cade e scorre sulle terre emerse, ammonta a circa 40.000 miliardi di metri cubi all’anno mentre l’acqua richiesta dalle attività umane ammonta ad alcuni miliardi di metri cubi all’anno: il resto scorre nelle valli e nei fiumi e ritorna al mare.Non può non essere pubblica - Ci sarebbe quindi acqua per tutti se la distribuzione delle piogge non fosse molto diversa nei vari continenti e non fosse anche soggetta a mutamenti nel corso dell’anno. In molte zone dei vari continenti - Africa centrale, Sud-est asiatico, America meridionale - ci sono grandissime risorse di acqua dolce nei fiumi e nei laghi e poca popolazione che peraltro in genere non ha acquedotti o servizi igienici per trarre beneficio da questa ricchezza. Ci sono molte zone dei vari continenti - in genere quelle dei Paesi «industrializzati» - in cui è molto grande la popolazione accentrata in città sempre più numerose e grandi, in cui sono intense le attività agricole e industriali, è alta la richiesta di acqua dolce e la disponibilità di acqua nei fiumi e nei laghi è limitata. La soluzione delle crisi dell’acqua va cercata in una giustizia distributiva e qui ci si scontra col primo grave ostacolo, quello della «proprietà» dell’acqua, al centro di tutti i dibattiti sotto due aspetti. Di chi è l’acqua di un fiume come il Po, o il Danubio, o il Rio delle Amazzoni, o anche di un più modesto fiume come l’Ofanto o il Fortore, che scorre fra diverse regioni e paesi ? Il titolo della conferenza di Istanbul era proprio: «Stendere dei ponti» fra rive e popoli che si affacciano sullo stesso fiume. Non a caso la Turchia, che ospitava il Forum mondiale, ha conflitti con la Siria e l’Iraq per la «proprietà» delle acque del bacino idrografico del Tigri-Eufrate, il «grande fiume» biblico che si estende nei tre Paesi confinanti. Chi preleva acqua da un fiume per le proprie legittime necessità priva di parte dell’acqua coloro che vivono a valle. Chi scarica sostanze inquinanti in un fiume rende inutilizzabili le acque dello stesso fiume per le popolazioni a valle. La soluzione va cercata nel riconoscere che la vera unità politico-economica in cui si dovrebbe regolare la distribuzione e l’uso delle acque è il bacino idrografico, quel territorio composto da ogni valle con i fiumi principali e i loro affluenti, in cui scorre l’acqua delle piogge e delle nevi dall’alto fino al mare. La distribuzione e l’uso delle acque dovrebbero essere pianificati, decisi e fatti dalle popolazioni che abitano ciascun bacino. Sfortunatamente per ragioni anche storiche, ciascun bacino idrografico è diviso fra vari Stati e regioni amministrative ciascuno dei quali si considera «padrone» dell’acqua del suo pezzo di bacino idrografico. Lo Stato o la regione a monte di un bacino idrografico non ha nessun obbligo di avvertire chi sta a valle che costruirà una diga, che preleverà tanta acqua, che scaricherà tanti rifiuti nel bacino. Spesso i Paesi che si spartiscono uno stesso bacino idrografico sono in conflitto. Il «popolo dell’Ofanto» - La soluzione potrebbe essere cercata in una educazione a considerare l’acqua come bene comune delle popolazioni che abitano lo stesso bacino. Dovrebbe esistere non il popolo della Basilicata o della Puglia, ma il «popolo dell’Ofanto», o altrove il «popolo del Danubio», o il «popolo del Giordano» eccetera. In via di principio dovrebbe essere lo Stato che si assume il compito di assicurare acqua a tutti facendo pagare un prezzo equo e uguale. L’«acqua di Stato» come servizio pubblico dovuto ai cittadini. Di fatto gli Stati con riescono (o non riescono più) a svolgere questa essenziale funzione e dovere e si affidano a imprese il cui fine non è quello di soddisfare dei diritti civili e umani, ma di guadagnare, di coprire con le tariffe i costi affrontati e ricavarne profitto. E dove non c’è «mercato» per guadagnare non c’è neanche interesse ad assicurare l’acqua alle persone da cui non si può ricavare nessun utile. Nelle scorse settimane le riviste e i mezzi di comunicazione ci hanno mostrato i bambini con pesanti carriole piene di bottiglioni di acqua o donne con recipienti di acqua sulla testa che vagano da un fiume alle case o alle baracche. Chi volete mai che investa soldi per alleviare la fatica di queste persone quando ciò non assicura profitti ? Quando addirittura l’acqua «di tutti» è concessa dagli enti statali o regionali a pochi centesimi di euro al metro cubo ai privati che la imbottigliano e la vendono a diecine di euro al metro cubo ?
"La Gazzetta del Mezzogiorno" - 25/3/2009

0 Commenti:

Posta un commento

Iscriviti a Commenti sul post [Atom]

<< Home page