giovedì 13 novembre 2008

IL GUASTAFESTE

Petruzzelli
meglio i violini

La notte dei fuochi, la sera delle trombe. Una telefonata alle sei del mattino: vieni, sta bruciando il Petruzzelli. Il teatro moriva a bocca aperta verso il cielo dell’incredibile ottobrata barese, e si sa che il sole e la morte non sono mai andati d’accordo.
Eruttava scintille e fumo, povero tizzone annerito, lui che era stato gloria e arroganza di trionfi. Se ne è già parlato anni fa, nella penosa litania di anniversari che avrebbero dovuto non esserci: ora è troppo facile dire che quella mattina capimmo che nulla sarebbe stato più come prima.

L’INNOCENZA PERDUTA – Diciassette anni dopo, non è cambiato. Capimmo che qualcosa era finito per sempre, una innocenza che non sarebbe più ritornata. Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia, ah de’ Medici. Anzitutto sarebbe fuggita quella. E ci guardavamo smarriti nel silenzio delle parole di circostanza. Non lo meritava, diceva banalmente qualcuno come si dice di un amico che ci lascia. Ma nello stesso tempo era come se ci rendessimo conto che non avremmo perduto solo un teatro, è emozione vissuta insieme. Qualcuno nascondeva le lacrime con pudore, altri si aggiravano sbandati, come quando non si vuol credere. Altri continuavano smarriti a fare e farsi domande: e ora? Ci baciavamo come a un funerale. Ma sapevamo che, passato il momento della celebrazione collettiva, del grande abbraccio, forse non ci saremmo più ritrovati. La grande famiglia non sarebbe stata ricomposta dal lutto, ne sarebbe stata dispersa.
E poi il tempo, il tempo: forse avremmo sciupato il tempo, e il tempo avrebbe sciupato noi. Sommo Shakespeare. Puntualmente così. L’incendio del Petruzzelli ha frantumato la città, oltre che i muri ancora abbagliati dai lampi dell’arte. Questo chi scrive, scrisse, e quanto conferma, ancor più oggi che il grande evento si avvicina. Petruzzelli vivrai, il Petruzzelli rinasce. Ma come? Rinasce dalle sofferenze di un grande fuoco cialtrone. Ma chissà quando potrà rinascere davvero dal falò delle vanità, delle liti, dei veleni, degli interessi che hanno riempito i peggiori anni della sua vita più di quanto lo abbia riempito la febbre del cantiere, il brivido della lunga vigilia, il tempo dell’avvento. Insomma se nasce nuovo, non dovrebbe nascere già un po’ vecchio.

LA COSA IMPOSSIBILE – Perché l’incredibile segreto del teatro che conquistò il mondo fu la giovanile sventatezza di un pugno di incoscienti che, non sapendo che la cosa era impossibile, la fecero. Una levantina energia vitale che somigliava a quella di chi il teatro aveva voluto costruirlo tanto tempo prima. Il dna più autentico di una città che sta sempre a inventarsene una. Assetata di fare. Bisognava conoscerli quei quattro gatti, davvero quattro gatti appassionati ma più competenti e innovatori di tanti altezzosi soloni da salotti buoni. Chi li conobbe, quasi non ci crederebbe di fronte alle coorti pletroriche dei moderni teatri, agli apparati elefantiaci come ministeri. Più che cartelloni, il Petruzzelli offrì eccitazioni. Più che applausi, suscitò stupori. Un entusiasmo contagioso e leggero come il vento che, avuta Marta Graham, non ci pensò due volte a far arrivare Bejart. E poi, sempre osando come folli, i nomi più stratosferici: Roland Petit, Lindsay Kemp, Liza Minnelli, Frank Sinatra, Nureyev, Barishnikov, Eduardo De Filippo, Dario Fo, Strehler, Ronconi, Kantor; Peter Book, Muti, Maazel, Sinopoli, Rotropovich, Uto Ughi, Pavarotti, Carreras, Moni Ovadia, Carmelo Bene, Ray Charles, Pina Baush, Carolyn Carlson, Carla Fracci, i Momix, Jorge Donne, il Bolshoi, Juliette Greco, Zizi Jeanmarie, von Karajan. E ci tenevano alle «prime» europee o mondiali qui, non alla Scala o al Metropolitan.
LA BANDIERA DELLA TENACIA – Una lunga cavalcata senza tirare il fiato, un affannarsi a Bari della stampa internazionale sfiatata dal ritmo incalzante delle trovate di quell’impunito inaspettato teatro. Poi gli invitati sono scesi a Bari solo per commiserarci. Per il Petruzzelli finalmente punito. E per Punta Perotti. Una rivincita. E moralismo secchione antimeridionale. Sotto sotto gli faceva piacere. Liquidare Bari, ma in fondo anche la Puglia, in un rudere e in un rustico. Insieme al nostro complesso del «come eravamo», la ricerca inutile del tempo perduto, l’infinita nostalgia di chi vagheggia sfinito un tempo ormai finito, come quelle bellezze incapaci di capire che quando si sfiorisce si può rifiorire diversamente. Un alibi per le prèfiche della città martire, «Petruzzelli o morte». Ma se una mano empia aveva segnato il tempo buio della decadenza, Bari non ha vissuto solo di capelli strappati. Altro che «grande» stampa del Nord.
Anche per questo, dopo la notte dei fuochi, la sera delle trombe sia piuttosto sera incantata di violini, felice ma discreta, emozionante ma serena. Insomma senza l’aria che Bari sia tutta appesa al Petruzzelli, che le sue sorti magnifiche e progressive dipendono solo da quel sipario, come se non ce ne fossero state e non ce ne fossero altre. E se una bandiera si deve mettere sul teatro, sia quella di una città che nonostante tutto ce l’ha fatta con la sua civica virtù della tenacia. Una città che non deve affatto rifarsi un’anima. E una bandiera che sventoli per ciascuno, perché poi fra di noi lo sappiano come sono i baresi. Vanno al nòcciolo, senza retorica. Ma sarebbero purtroppo anche maledettamente capaci di buttare giù di nuovo il teatro pur di far cadere chi è sul palco.
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Lino Patruno
"La Gazzetta del Mezzogiorno" - 08/11/2008

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